martedì 8 maggio 2012

Redistribuire o produrre? La società prigioniera del suo dilemma/2

In una rent seeking society, i migliori talenti sono allocati verso attività che nulla hanno di virtuoso, ma sono lecite secondo le regole sociali. Gli esempi sono innumerevoli e ben verificati nel corso della storia dell’umanità: dalla pratica dell’acquisto di titoli nobiliari nella Spagna del Seicento alla conquista e difesa di una posizione di monopolio nel capitalismo pre antitrust.
Ora, è facile provare a sostituire la parola torta di cui all’esempio iniziale con la parola PIL e immaginare le conseguenze. Dovremmo avere l’accortezza di notare però un particolare fondamentale del meccanismo di computo del PIL. Un attività redistributiva lecita e alla luce del sole viene contabilizzata come voce attiva del Prodotto Interno Lordo. Pensiamo ad una persona che faccia causa ad un suo vicino di casa per una banale lite condominiale. Ipotizziamo che il vicino di casa venga condannato a risarcire il danno. La persona che ha intentato la causa riceve un pagamento diciamo di 1000 euro, ne paga 100 al suo avvocato e ne guadagna così 900 (ma sarebbe stato disposto a spendere denaro in spese legali, perizie, etc al limite fino a 1000 euro). I 100 euro che ha pagato all’avvocato come parcella sono fatturati come prestazione professionale e costituiscono un reddito che entra nel computo del Pil. Ora, il Pil è stato aumentato di 100 euro, ma qual è la corrispondente creazione di valore? Nessuna. Una persona ha 1000 euro in meno e due persone hanno 1000 euro in più (uno 900 e l’altro 100). Il gioco è a somma zero ma il Pil segna più 100[1].
Naturalmente questo non vuol dire che le professioni legali costituiscano sempre attività redistributiva (lo sono solo nella misura in cui si dedicano al trasferimento di ricchezza piuttosto che alla sua produzione), un sistema giuridico equo è infatti la base di ogni democrazia moderna e non lo si potrebbe  di certo immaginare senza la categoria degli avvocati. Tuttavia anche il buon senso ci suggerisce che un alto tasso di litigiosità tra i cittadini è dal punto di vista dell’intera società solo uno spreco di risorse.
Per tornare al Pil e al suo significato, quello che si vuole mettere in dubbio è che alcune delle sue componenti non rappresentano una vera e propria produzione di reddito, ma solo il costo del trasferimento di ricchezza da un soggetto ad un altro.
E non è tutto qui. Pensiamo al settore pubblicitario. Immaginiamo due aziende concorrenti A e B che producono uno stesso tipo di bene. L’azienda A investe 100 in una campagna pubblicitaria (paga cioè una terza azienda C che si occupa di pubblicità una somma pari a 100 per organizzare la campagna). L’azienda B non fa pubblicità. È ragionevole pensare che l’azienda A riesca a convincere il pubblico a comprare il suo prodotto. In questo modo conquista ai danni dell’azienda B una quota di mercato che vale diciamo 500 in termini monetari. Tiriamo le somme: A ha ottenuto 500 ed ha pagato 100. Tralasciando i costi di produzione per semplicità, le rimane un guadagno di 400. L’azienda B ha perso 500. L’azienda C ha guadagnato 100 (per aver curato la campagna pubblicitaria). Il gioco è a somma zero. Tuttavia il sistema ha remunerato un operatore per aver trasferito ricchezza da un soggetto ad un altro senza aver creato alcuna utilità. Anzi le due aziende concorrenti A e B hanno insieme perso 100 (una ha guadagnato 400 e l’altra ha perso 500). Proviamo ad immaginare cosa sarebbe successo se fossero state dirette da un’azienda capogruppo. Non avrebbero di certo investito 100 in una campagna pubblicitaria e quelle risorse avrebbero potuto essere investite ad esempio in ricerca e sviluppo (o in una qualsiasi forma di miglioramento dell’attività produttiva o distributiva). Ipotizzando che l’investimento abbia successo (così come abbiamo ipotizzato che l’investimento in pubblicità ne ha avuto) l’azienda capogruppo otterrebbe un ritorno di utilità per un valore superiore a 100 e quella differenza sarebbe anche il valore aggiunto che otterrebbe l’economia nel suo complesso.
Con ciò non si vuole sostenere che la pubblicità rappresenti sempre un’attività redistributiva, perché ha di certo una sua utilità (nel far conoscere i prodotti al pubblico, nello stimolare i consumi ad esempio) né che la concorrenza sia sempre dannosa per l’economia, ma solo che lo è quando brucia risorse nella competizione.
Per continuare sullo stesso tenore, si può introdurre un esempio che viene comunemente chiamato l’economia di Robinson Crusoe.
(continua...)



[1] Tanto per essere chiari, non è la stessa cosa nel caso della produzione di un bene. Un’automobile venduta ad un cliente per 10.000 euro sposta denaro da un soggetto ad un altro per 10.000 euro. Se analizziamo i flussi di cassa ci accorgiamo che il gioco non è a somma zero, ma positiva. Il cliente ha da una parte – 10.000, ma dall’altra un’utilità il cui valore commerciale dovrebbe essere 10.000 euro. L’azienda ha un incasso di 10.000 euro da una parte e un costo di produzione (distribuzione, marketing, etc) per definizione inferiore a 10.000 euro. La differenza rappresenta il valore aggiunto prodotto ed anche il contributo al PIL.


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